Onorevoli Colleghi! - È da tempo ormai immemorabile che, nell'ambito della gestione dei nostri beni culturali, le attività di conservazione dei beni culturali sono prive di una normativa chiara e definitiva, essendo state per decenni solo indirettamente menzionate dalla legge generale n. 1089 del 1939 recante «Tutela delle cose d'interesse artistico e storico» promossa dal gerarca Giuseppe Bottai, allora Ministro dell'educazione nazionale fascista.
      Questa legge, il successivo testo unico di cui al decreto legislativo n. 490 del 1999 e il recente codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, che ha accorpato tutta la precedente normativa vigente in materia, non hanno mai avuto regolamenti di attuazione specifici e si limitano a stabilire essenzialmente le competenze amministrative degli uffici demandati alla tutela dei beni culturali e delle soprintendenze nei loro poteri coercitivi detentori dei beni culturali.
      Nello stesso anno in cui entrò in vigore la legge n. 1089 del 1939, fu contestualmente istituito l'Istituto centrale del restauro presso il Ministero dell'educazione nazionale, Istituto che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del Governo di allora, stabilire i metodi di restauro e controllarne l'applicazione.
      Presso questo ente venne creato inoltre un corso professionale della durata di tre anni destinato agli artigiani restauratori in possesso della licenza media inferiore al fine di addestrarli alle tecniche di restauro elaborate dall'Istituto stesso.
      Il corso rilasciava, sino a pochi anni fa, un diploma simile a quello di maestro d'arte degli istituti professionali per l'arte e l'artigianato. Dopo oltre cinquanta anni e una guerra che ha cambiato profondamente le istituzioni e i princìpi sociali in Italia, poco è mutato dall'opera del Ministro Bottai; la legge sulla tutela delle cose

 

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di interesse storico e artistico è rimasta fondamentalmente la stessa e non è stato adottato il tanto atteso regolamento di attuazione; l'accesso al corso di restauro dell'Istituto centrale è stato da pochi anni innalzato ai diplomati delle scuole secondarie superiori e continua ad essere decentrato solo a Firenze e a Ravenna per un numero complessivo annuale di circa trenta studenti per tutti e tre i corsi. Mentre i metodi e i materiali di restauro si sono evoluti grandemente grazie agli istituti di ricerca, le università hanno al contempo istituito appositi corsi per la conservazione dei beni culturali e le regioni hanno promosso un grandissimo numero di corsi di formazione o di specializzazione in base alla legge sulla formazione professionale n. 845 del 1978.
      Ma la normativa vigente in materia di beni culturali non è stata integrata da nessuno strumento normativo valido e definitivo che stabilisca le professioni del restauro e i loro itinera formativi, a esclusione del decreto-legge n. 502 del 1999, poi decaduto, e delle altre norme succedutesi nel tempo, che appaiono misure del tutto provvisorie e sono integrati quasi anno per anno a seconda delle spinte di gruppi di pressione che sembrano interessati solo agli appalti di restauro.
      Negli ultimi anni le attività di conservazione sono balzate all'attenzione dell'opinione pubblica, divenute centro di importanti interessi politico-sociali per le amministrazioni territoriali che gestiscono i musei civici e i palazzi storici, e appaiono a tutti essenziali per la conservazione del nostro immenso patrimonio culturale: basti pensare al mantenimento delle aree archeologiche di tutto il territorio italiano, le chiese che sono per il 90 per cento di competenza dell'ente pubblico, le gallerie, le collezioni, le fortezze storiche, le ville, i teatri storici e soprattutto i centri antichi, anche quelli minori che sono sparsi su tutto il territorio nazionale non secondi per importanza culturale a quelli delle grandi città.
      Tutti questi interventi di manutenzione e di restauro hanno necessità di mano d'opera specializzata e diversificata a seconda delle varietà degli interventi conservativi affinché si possa intervenire con le necessarie perizia e competenza e si abbia per altro la certezza dei propri diritti nell'ambito del lavoro.
      Gli enti pubblici che finanziano, per il 90 per cento, le operazioni di restauro sotto il controllo delle soprintendenze, in mancanza di una legge che istituisca delle qualifiche professionali chiare e facilmente rintracciabili sul mercato o un mansionario che ne contraddistingua chiaramente le competenze, hanno avuto per decenni la consuetudine di decidere chi poteva o meno lavorare sui beni culturali, detenendo de facto un potere e una discrezionalità che non competono loro.
      Ciò perché si era voluto che per questo ambito professionale fosse sufficiente l'apporto formativo e garante dell'Istituto centrale per il restauro di Roma o delle sue poche ramificazioni, e per il restauro architettonico della facoltà di architettura.
      Gli architetti da sempre infatti possono, grazie all'iscrizione all'albo professionale, definirsi restauratori su ogni tipo di edificio e ogni decorazione posta su di esso e solo recentemente è nato nei corsi di laurea di architettura un indirizzo specifico di restauro.
      Di fatto le necessità del mercato hanno popolato questa attività con restauratori dalla formazione più eterogenea: architetti che, oltre che occuparsi del restauro statico, si occupano del materiale lapideo o degli affreschi; artigiani del marmo, del ferro e del mobile che per assonanza con il loro lavoro manuale si sono trasformati in restauratori di decorazioni lapidee, di materiali preziosi, di oggetti di antiquariato; chimici, biologi e geologi che nell'ambito delle loro competenze sui materiali più disparati hanno elaborato sistemi di intervento conservativo e di restauro sui beni culturali; antiquari che in forza delle loro competenze si occupano normalmente di restauro; enti di formazione professionale che grazie al finanziamento pubblico gestiscono spesso corsi di restauro ispirandosi solo in parte a quelli dell'Istituto centrale per il restauro.
 

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      Di fatto l'Istituto centrale per il restauro è l'unico ente che possa far addestrare facilmente i suoi studenti su opere d'arte di una certa importanza in quanto facente parte del Ministero per i beni e le attività culturali. Gli altri corsi di restauro, privati e non, hanno avuto per anni la durata più varia e la consistenza tecnica più diversificata. Spesso le opere d'arte sulle quali si esercitano gli studenti provengono dagli scantinati delle chiese ma sono frequentabili spesso pagando rette proibitive.
      Per assurdo gli ex licei artistici, gli istituti per l'arte statali, le accademie e le facoltà di conservazione dei beni culturali delle università hanno enormi difficoltà a reperire materiale da restaurare di una certa importanza per la resistenza attuata dagli organi del Ministero per i beni e le attività culturali a consentirne l'utilizzo per scopi didattici. In questo far west senza regole, come lo ha definito pubblicamente alcuni anni or sono un Ministro per i beni culturali, i trecento o poco più che hanno avuto la fortuna di frequentare i corsi dell'Istituto centrale per il restauro sono divenuti una sorta di albo professionale, essendo gli unici a possedere una formazione omogenea e per questo preferiti naturalmente dalle amministrazioni che bandiscono le gare di appalto.
      Molti dei lavori di restauro su opere mobili sfuggono inoltre alla legislazione sugli appalti pubblici se l'appalto viene frazionato in piccoli lotti e rientra nel sistema della licitazione privata o nell'affidamento diretto amplificando inevitabilmente la discrezionalità dell'ente appaltatore, il quale preferisce rivolgersi a maestranze provenienti dall'ambito dello stesso ente di Stato.
      I tentativi di creare omogeneità tra i corsi di formazione che si svolgono sul territorio italiano hanno avuto vita breve e difficile e i rapporti tra centri regionali o universitari con il Ministero per i beni e le attività culturali sembrano muoversi in un ambito di tipo feudale. Di fatto tutto il campo formativo e di lavoro che rimane tra l'Istituto centrale e la facoltà di architettura appare un immenso terreno franco ove si accavallano corsi regionali e corsi universitari dalla natura più disparata come, ad esempio, quelli relativi alle rinnovate figure professionali di geometra.
      È necessario perciò individuare qualifiche, competenze e ambiti di formazione più rispondenti alle necessità di questo importante comparto della vita pubblica che regolarizzino inoltre tutto il pregresso, anche se i diversi settori di restauro non potranno essere sempre determinati da un percorso formativo univoco.
      Non potendo costringere tutti coloro che operano nel campo della conservazione a omogeneizzarsi a una figura oramai astratta quanto superata di restauratore tuttofare, la presente proposta di legge tende a regolarizzare le varie professioni che operano in questo campo, preferendo altresì il termine «conservazione» al posto del contraddittorio termine «restauro».
      Vanno inoltre messi dei limiti chiari fuori dei quali vi siano artigianato puro e semplice o teoria più astratta.
      Il compito di individuare le varie professionalità nel campo della conservazione è demandato dalla presente proposta di legge alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, che sono l'unico ente in grado di controllare tutte le qualifiche esistenti nel campo della conservazione e di discriminarle con precisione.
      Dal punto di vista sindacale in questo campo di attività si fa riferimento alle contrattualità più disparate: il contratto del commercio se i lavori sono effettuati da ditte antiquariali, quello del legno per gli operatori del restauro di opere mobili, quello degli edili per coloro che lavorano su superfici murarie o su opere lapidee, sino a giungere al contratto dell'industria per chi lavora nelle grandi aziende polivalenti e a quello nuovo della federcultura.
      Di fatto poi la contrattualità viene vanificata nelle gare di appalto quando si consentono ribassi eccessivi sulle perizie operate dagli stessi enti appaltanti e non si controlla chi sta lavorando davvero sulle opere.
      Con l'entrata in vigore, poi, della legge n. 30 del 2003, e dei successivi decreti
 

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legislativi di attuazione, la babele dei contratti e delle prestazioni professionali in questo settore si è ulteriormente aggravata e per abbassare i costi di impresa si è fatto ricorso a forme di rapporto lavorativo aberranti e avvilenti, per non parlare della mano d'opera abusiva, e il settore non appare per altro assolutamente sindacalizzato. Attualmente molti lavorano effettivamente come dipendenti degli enti appaltatori ma usufruiscono ufficialmente di forme di collaborazione professionale assai variegate e vengono pagati al livello di una collaboratrice domestica.
      La proposta di legge si ripromette quindi di definire una volta per tutte quali e quanti sono i profili professionali effettivi per renderli idonei a gestire la maggior parte dei lavori di conservazione sui beni culturali, ferme restando le competenze ex lege di chi vi opera da tempo e individuando percorsi formativi più idonei e più praticabili tra quelli esistenti attualmente.
      Essa si propone anche di istituire una gerarchia e una diversificazione di competenze più precise e attuali tra le varie professionalità che operano a vari livelli nel settore. Essa fa giustizia definitiva della qualifica oramai obsoleta del restauratore tuttofare che diventa di fatto un aggettivo storicizzato.
      Delinea quindi un indirizzo di interventi nei quali è possibile trovare un vasto campo di applicazione delle competenze professionali delineate, con vantaggi evidenti per il mantenimento del patrimonio nazionale più diffuso.
      Gli articoli da 1 a 4 della proposta di legge definiscono le professionalità pertinenti alle attività di restauro e di manutenzione dei beni culturali (tecnici, operatori, conservatori e restauratori), precisandone gli itinerari formativi e curriculari.
      L'articolo 5 stabilisce una forma di sanatoria con la possibilità che le qualifiche previste dalla presente proposta di legge siano riconosciute anche a coloro che non hanno i requisiti richiesti e ai professionisti di chiara fama. Individua inoltre provvisoriamente la figura del conservatore di beni ambientali paesistici.
      L'articolo 6 introduce la partecipazione agli appalti pubblici fino a quando la normativa sugli appalti pubblici sia adeguata in conformità a quanto stabilito dalla proposta di legge.
 

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